Torino in effetti aveva un sacco di fabbriche abbandonate, soprattutto fra Nichelino, Moncalieri e Mirafiori Sud, la zona che bazzicavo io.
Ma per me non ci fu un evento scatenante. Fu una lenta discesa nell'abisso.
Vidi tutto con i miei occhi di bambino con i pantaloncini corti e la maglietta di Goldrake.
D'altra parte non ero io il protagonista della storia.
Io ero solo uno dei tanti danni collaterali.L'assistente sociale ci presentò il nuovo psicologo. Il precedente, l'ultimo di una lunga serie che si erano passati il testimone come le supplenti del sud nella mia scuola elementare statale, se n'era andato in pensione da un giorno all'altro, piantando in asso tutti i pazienti del centro salute mentale di Via N.
Mia madre disse all'assistente sociale che il servizio sanitario pubblico era una vergogna, e che si sarebbe rivolta a uno privato [naturalmente era un bluff, non potevamo permettercelo uno privato una volta alla settimana].
Il nuovo psicologo la fece sfogare.
Poi ci accolse in una delle tante stanze del centro. C'erano disegni di bambini appesi alle pareti. Io pensai che disegnavo meglio di loro. E che quell'edificio restava una merda pure coi disegnini colorati.
Mia madre cercò un approccio pragmatico. Non voleva speranza, se non era sul menù. Lui rispose ad ogni domanda senza indorare mai la pillola.
E alla fine tornammo a casa con mia mamma che piangeva [ma non faceva testo: lei piangeva spesso].
Comunque lo psicologo disse che non c'erano cure. Bisognava soltanto accettarlo.
Sprofondare.
Il bambino con la maglietta di Goldrake provò una rabbia non commisurata alla sua età. Quella rabbia era troppo grande e complicata per le sue risorse. I dolori che aveva conosciuto a quell'età erano dolori semplici: ginocchia che si sbucciavano contro l'asfalto, cadute dalla bicicletta, spintonate con gli amici, pallonate in faccia o nei coglioni.
Ma niente del genere. Niente con una simile intensità e persistenza.
Così il ragazzino giocava in cortile in mezzo agli altri ragazzini, e sembrava uguale a tutti quanti gli altri.
Ma qualcosa aveva cominciato a crescergli dentro. Qualcosa che lui non poteva gestire, affrontare, comprendere.
Qualcosa che l'avrebbe divorato.
Marvel United
Gioco cooperativo per 1-4 giocatori, di Eric M.Lang e Andrea Chiarvesio, della durata di 45 minuti circa a partita, taglio di difficoltà: family [dai 10 anni in su, per star tranquilli] edito da CMON e Asmodee.
Nella scatola 10 miniature, raffiguranti 7 eroi [Capitan America, Iron Man, Black Widow, Captain Marvel, Hulk, Wasp, Ant-man] e 3 cattivi [Red Skull, Ultron, Taskmaster].
In ogni partita verrà scelto il criminale da affrontare e il party degli eroi da far scendere in campo.
Il setup prevede di ricostruire la città sotto attacco mettendo la scheda del criminale al centro, e posizionando 6 dei 8 luoghi attorno. Il criminale gestisce molti scagnozzi e qualche gregario.
Gli eroi vincono se sconfiggono il criminale.
Il criminale vince se soddisfa le condizioni della trama nefasta scritta sulla sua scheda, oppure se deve pescare una carta ma il suo mazzo è vuoto, o ancora se uno qualsiasi degli eroi inizia il suo turno senza carte in mano nè nel mazzo.
Marvel United è un gioco di carte.
La partita inizia sempre con il criminale che svolge il suo turno. Pesca una carta dal suo mazzo Piano Supremo e attiva una serie di effetti.
Il criminale si muove fra i luoghi, catturando prigionieri, assoldando scagnozzi e bastonando gli eroi.
Durante il turno degli eroi si effettuano questi passaggi [in questo ordine]:
1- pescare 1 carta
2- giocare 1 carta
3- risolvere le azioni
4- effetti del luogo
La cosa interessante è che l'eroe del turno gioca sfruttando anche i simboli della carta giocata nel turno precedente, e lascia al giocatore successivo i propri simboli "attivi". Questa catena di effetti costringe i giocatori a pianificare in gruppo le varie giocate nei turni, incastrandole e combinandole per ottenere il più possibile [e sprecare il meno possibile].
Per poter sconfiggere il criminale, tuttavia, gli eroi devono prima risolvere almeno 2 missioni su 3, fra:
- Salvare i civili [liberare i civili presi in ostaggio nei 6 luoghi]
- Sconfiggere i malviventi [prendere a randellate gli scagnozzi che presidiano i luoghi strategici della città]
- Sventare le Minacce [risolvere le carte minaccia collocate dal criminale nei luoghi]
Appena risolta la prima missione, il criminale diventa "Sotto Pressione" [vedi: si incazza] ossia comincia a intensificare i propri attacchi [di fatto; gioca più carte].
Inutile girarci attorno: Marvel United è un vero gioiello.
Veloce, dinamico, avvincente. Tutto sembra disegnato e rifinito per divertire il giocatore, senza annoiarlo mai. Niente sembra superfluo o messo lì solo per allungare il brodo, o per complicare un flusso di gioco che è perfetto. La trovata di utilizzare anche gli effetti della carta giocata nel turno precedente è brillante: costringe a pianificare, muoversi in maniera coordinata, pensare un turno avanti.
Sui materiali nulla da dire se non: CMON [penso sappiate cosa vuol dire].
Per quel che mi riguarda: uno dei migliori titoli giocati quest'anno, e presto mi prenderò l'espansione Spiderman.
Così nascono i mostri.
"Vorrei che Dio mi imprimesse nel cuore un secondo dolore, più forte. In modo da non sentire più il primo"
Andrea, 1990
Crescevo. La maglietta di Goldrake, taglia S, era finita da qualche parte nel mio passato.
Ero diventato una taglia XXL.
Camminavo con la postura di uno scimmione.
La barba mi nascondeva il volto.
Avevo cominciato a vestirmi di nero.
Con i teschi.
Gli anelli sulle mani.
Gli anfibi.
Quello che avevo dentro cercava di uscire fuori.
Alla società piacevano i superdisabili.
Era bello seguirli alla televisione, nelle loro paraolimpiadi. Quello senza gambe che nuotava. Quello mutilato, che tirava con l'arco tendendo la corda coi denti.
Le persone applaudivano e commentavano: "Vedi: con la forza di volontà, volere è potere!"
Volevo gridar loro stocazzovolereèpotere!
Non era così per tutti.
La forza di volontà non funzionava sempre.
E molti disabili facevano una vita di merda.
Il mio migliore amico era diventato uno psicologo.
C'era di che da sbellicarsi.
"Che ti fai? Un teschio?" mi chiese buttando giù la grappa.
"Un mostro" gli dissi svuotando anch'io il bicchiere.
Era una di quelle sere in cui parlavamo di cose serie a spizzichi e bocconi.
"Che tipo di mostro?"
"Quello che mi è cresciuto dentro in questi anni. Sedimentando. Giorno dopo giorno. Un mostro fatto di rabbia"
"Perchè vuoi tatuartelo?"
"Voglio dargli un volto. E forse se comincio a tirarlo un po' fuori, si farà dello spazio dentro"
Stefano non chiese altro.
Eravamo cresciuti insieme dall'età di 6 anni.
Sapeva tutto di me.
La tatuatrice mi fece accomodare. Si mise i guanti e avvolse la pellicola attorno a ogni cosa, compresa la lampada.
Accese la macchinetta per i tatuaggi.
"Sei pronto per un po' di dolore?" mi chiese
"Non sai quanto sono pronto" le risposi.
Sempre più introspettivo il tuo blog.
RispondiEliminaComplimenti Andrea.
Alessandro C.
Grazie Alessandro.
EliminaCiao
Andrea
C'è ben poco da dire; ognuno ha i suoi mostri da gestire, ognuno a suo modo...
RispondiEliminaInizialmente ho respirato la stessa atmosfera di "lo chiamavano jeeg"ambientata a Torino.
RispondiEliminaNe è uscito un nuovo capolavoro. Un abbraccio dado,a te e al tuo mostro
Grazie Alerian.
EliminaAbbiamo quasi la stessa età [io sono del 74].
Andrea
Brividi sulla pelle.
RispondiEliminaTullaris