domenica 14 giugno 2020

Sapevo che quella che stavo per dare era la risposta sbagliata

"Che cos'è?" mi chiede salendo in macchina e notando la scatolina sul sedile del passeggero.
"Un gioco" gli rispondo.
Partiamo.
Mio padre non guida più da qualche anno. Il tempo non risparmia nessuno, neanche i giganti della nostra vita.
Per evitare che prenda il pullman, lo porto io dal dentista. Cinque incontri, uno la settimana, per mettergli in bocca una corona, che non so di preciso cosa sia ma so cosa costa.
Il dentista, che è lo stesso mio e di Francy, si trova in corso Vittorio, dietro il convento di frati minori dove a 20 anni ho svolto il servizio civile, servendo alla mensa dei poveri.
Passo di fronte al convento ogni volta che vado dal dentista: mi fermo davanti al portone chiuso e ricordo tutto: 110 coperti a pranzo e 110 a cena, più i sacchetti per chi non riesce a entrare, e poi il venerdì pomeriggio i pacchi viveri per chi ha una casa, e una volta al mese si va alla Caritas di Moncalieri a caricare il furgone. La mattina presto uno fa il giro delle panetterie, dopo pranzo e dopo cena tutte le sedie a gambe all'aria sui tavoli, si scopa il salone e si passa il mocio.
14 mesi della mia vita.
Alcuni anni dopo il mio congedo hanno chiuso la mensa. Non conosco le ragioni ma le immagino. Portava brutta gente, degradava la zona, i residenti raccoglievano firme per chiuderla. Perchè chi non c'è mai stato in una mensa per poveri ha un'immagine molto romantica in testa: vecchietti in fila col piatto in mano, tutti con lo sguardo basso, silenziosi e mortificati. Me l'immaginavo anch'io così, prima. Invece era un posto complicato, pieno di tensioni. Attilio, il responsabile degli obiettori, diceva sempre che stavamo su una polveriera e che dovevamo evitare le scintille.
La mensa è stata chiusa per tantissimi anni.
Poche settimane fa ho scoperto che l'hanno riaperta.
Saliamo dal dentista.
Ci apre l'assistente alla poltrona, che ci dirotta in bagno a lavare le mani. Poi mio padre entra e io resto solo nella sala d'aspetto.
Esco sul balconcino.
Dall'isolato opposto: il mio convento.
Riconosco il ballatoio che portava alla mia camera con bagno cieco.
I frati stavano dall'altra ala del convento.

Torno a sedermi. Prendo il manuale di KODACHI.
Leggo.

KODACHI
Gioco di carte per 2-4 giocatori, per 45 minuti circa di durata, del 2019, su board game geek un dignitoso 7.5,  di Adam West, già autore di Ninjato, al quale Kodachi si ispira, edito in Italia da Fever Games, prezzato 20€. Ambientato nel 12esimo secolo, in Giappone, pur con un'innegabile astrattezza, Kodachi si ispira alle guerre di clan rivali giapponesi, per ottenere potere e rispetto a seguito della Guerra Genpei.
Ogni giocatore comincia con lo stesso set di 12 carte iniziali, composto da 10 carte Dojo [valori da 1 a 5] e 2 Abilità iniziali [che fungono da 3 e modificatori +/- 1].
Creati i 2 mazzi comuni Guardie e Palazzo e posizionati al centro del tavolo, si comincia a giocare.
Il turno si articola in 2 fasi:
1-attaccare le guardie
2-ottenere ricompense
Le guardie possono essere affrontate con la forza [in questo caso occorre rispondere dalla mano con carte di valore più alto], o con furtività [si risponde con valore più basso].
Il giocatore sceglie quando fermarsi, e ottiene tanti Tesori quante sono le guardie sconfitte meno una. Se "sballa", ossia non può riesce a rispondere efficacemente, non ottiene nulla. I Tesori acquisiti vengono utilizzati nella seconda fase per acquistare carte dal mazzo Palazzo che danno abilità, punti vittoria, segnalini clan e nuove carte Dojo.
Le meccaniche sono quelle del push-your-luck e del deckbuilding. Il giocatore nel suo turno sceglie quanto rischiare affrontando le guardie [vi sono guardie d'elite particolarmente coriacee da mandar giù] e come spendere i tesori, se per punti vittoria immediati o per la costruzione di una mano di carte più efficiente.
L'interazione è indiretta e consiste nel sottrarre le carte ricompensa più appetibili o utili [in ogni turno, dopo che il giocatore attivo ha ottenuto le ricompense, ogni altro giocatore ne ottiene una].
La componente di push your luck non è spinta, o meglio: refillando sempre la mano a 6 e potendo arricchire il mazzo con le carte Palazzo, il giocatore può quasi sempre assumersi il rischio di affrontare le prime 2-3 guardie. Poi le cose si complicano, specialmente con le guardie d'elite e gli avversari che gufano contro. La tensione si sente. Il gioco è fluido, mai frustante, divertente. Le carte ricompensa danno punti vittoria in modi diversi [es. punti per carte Delegato, per Dicerie, per quanti giocatori condividono una certa tipologia], quindi non si sa mai chi ha vinto sino al conteggio finale.
Amo i giochi di carte, forse perchè arrivo dal mondo di Magic The Gathering, e mi piace la componente push your luck quando non è secca o troppo punitiva. Pur diverso Kodachi mi ha ricordato Ciarlatani di Quedlinburgo, anche quello un gioco di push your luck e costruzione del mazzo \ sacchetto.
Le carte sono robuste e non necessitano bustine.
Gioco di carte molto valido, costa poco e la scatola è ultra compatta.
Potrebbe candidarsi nella ristrettissima rosa dei titoli che mi porterò al mare [ristrettissima per questioni logistiche di ingombro in valigia].

Esco dalla sala d'aspetto.
Mio padre sta fissando il prossimo appuntamento col dentista.
"Tutto bene?" gli chiedo.
"Tutto bene" mi risponde.

Una settimana dopo siamo di nuovo lì, per la corona. Lascio mio padre davanti al portone del dentista e cerco parcheggio. Mi ci vanno una decina di giri dell'isolato per trovarlo.
Scendo. Mentre conto la moneta davanti parchimetro sento qualcuno alle mie spalle.
Mi volto. Un barbone. Mi indica il cielo.
"Ma i paracadutisti che si buttano dagli aerei mettono la mascherina?" mi chiede. Poi ride da solo e apre la mano.
Gli do due euro e cerco di ricordarmi di lui, del suo volto, se era uno dei poveri della mia mensa, del mio servizio civile.
Intasca la moneta e se ne va, io pago il parchimetro.

Prima di salire dal dentista passo davanti al convento.
Ci sono già le persone in fila sul marciapiede alle 10 del mattino. Vedo alcuni volontari e due giovani frati.
Studio i loro volti. Cerco. Ma naturalmente non trovo nessuno del mio passato.
A casa riguardo fotografie che hanno quasi 30 anni.
Fra tutti i volti, mi manca quello di Padre Roberto.
Quando scattammo le foto, il giorno del mio congedo, lui se n'era già andato.

Ricordo come affrontava i prepotenti.
Fra i tantissimi ricordi, il più vivo è di quella sera che eravamo io e lui in mezzo alla strada, di fronte al portone della mensa, circondati da un capannello di persone. Non ricordo il motivo del casino comunque un tizio prese il frate per il collo e io mi buttai in mezzo spingendolo via. Quello cadde all'indietro, e mentre due compari lo aiutavano a rialzarsi e io pensai: "Ecco, è finita, adesso ci faranno a pezzi". Sembrava un film a rallentatore, con Padre Roberto che urlava all'altro obiettore di chiamare la polizia, e il capannello di persone che sembrava stringersi attorno a noi. Non ci fecero a pezzi. Finì come finiva quasi sempre: spintoni, insulti, minacce.

"Tu credi?" mi aveva chiesto uno dei primi giorni del mio servizio civile.
"No" gli avevo risposto. Sapevo che era la risposta sbagliata da dare a un frate, dentro un convento che mi ospitava, ma non mi andava di mentire.
"E allora perchè sei qui?".
"Per aiutare le gente, credo" gli avevo risposto.
"Almeno sei nella squadra giusta" mi aveva sorriso.

Mi manchi Roberto.

Trovate Kodachi
su Magic Merchant
che sostiene questo blog

6 commenti:

  1. La giustezza della squadra è comunque sempre una cosa soggettiva...

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  2. E' più comodo dimenticare certe cose.
    Grazie Dado per riportarci alla realtà.

    Alessandro Belli

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  3. Ricordo quanto mai attuale! Che esperienza il servizio alla mensa! Un piccolo grande gesto per tutti anche oggi (si condivido ... la squadra sembra proprio quella giusta). Grazie Dado

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  4. Molte volte quelli che non credono sono piu' vicini a Dio (io scommetto che esiste...come consiglia il buon Pascal) di quanti dicono "Signore, Signore " !!! Dado...bel pezzo....e gioco nel radar!!!

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